Accettare
Accettare
Sarah Giannini
“La pratica meditativa non è un acchiappa nuvole, ma un modo per entrare in contatto con la vita.” Charlotte JokoBecks
“L’accettazione è un orientamento interiore a riconoscere le cose come sono, che ci piacciano o meno e indipendentemente da quanto terribili possano essere o apparire.” JKZ
Accettare il modo in cui stanno le cose significa quindi innanzitutto vederle per come sono. Sembra una capacità banale, che non richiede alcun addestramento. Tuttavia raramente vediamo davvero come sono le cose. Più spesso le vediamo distorte da diversi filtri, come se osservassimo il mondo, noi stessi e gli altri attraverso lenti colorate: le lenti dei nostri pregiudizi, delle nostre credenze, dei nostri desideri. Quindi vedere le cose come sono necessita che questi fitti veli vengano dapprima riconosciuti – perché fanno talmente parte della nostra attività percettiva che non li notiamo neanche – e poi lasciati cadere. E questo richiede pratica. Richiede disponibilità ad aprirsi concretamente e completamente a tutto quello che l’esperienza ci presenta.
Siamo condizionati a ritenere accettabile solo ciò che è piacevole: ci apriamo volentieri a quello che ci piace e ci chiudiamo all’indesiderato, allo sgradevole e al temuto. Ma desiderio, avversione e paura sono filtri. Attaccarci o inseguire ciò che vogliamo o respingere e rifiutare ciò che non vogliamo sono due reazioni apparentemente opposte, ma ognuna rappresenta il contrario dell’accettazione. La pratica meditativa ci fa il dono di non fidarci solo di ciò che troviamo piacevole e di ricusare lo spiacevole. Ci fa il dono di sviluppare interesse per ciò che è reale. La nostra cultura ci ha condizionato a ritenere la sofferenza un errore: se c’è sofferenza allora qualcosa non va. Pensando alla sofferenza in questo modo, tentiamo di correggerla. O di evitarla. L’altro potente condizionamento è quello che ritiene la sofferenza priva di valore. Perché soffrire se possiamo evitarlo? Di conseguenza siamo diventati maestri di distrazione: mangiamo, beviamo, lavoriamo senza sosta, navighiamo in rete per ore. Ma la sofferenza non ci abbandona. Il dolore è reale. Ciò cui resistiamo, persiste.
Il problema non sono le cose, non è dalla realtà in sé che sorge l’infelicità, ma dal fatto che la vorremmo diversa. Poniamo che sia una giornata piovosa. Ci irritiamo: ma proprio oggi doveva piovere? Picnic rovinato, gita al fiume saltata! Detesto la pioggia, mi fa sempre male quel ginocchio che ho operato dieci anni fa! I capelli mi diventano crespi e se c’è una cosa che non sopporto sono i capelli crespi. Qual è la realtà delle cose? Piove. Cos’è tutto il resto? Il prodotto della non accettazione. Cosa genera disappunto e scontento? Il reale o la lotta che ingaggiamo contro il reale?
Ecco uno slogan che ben riassume questa situazione: Dolore+resistenza=sofferenza
Accettare come stanno le cose non significa che ci debbano piacere. Significa che la mente è abbastanza morbida e spaziosa da vedere, da riconoscere anche lo spiacevole per il semplice fatto che è presente. Spendiamo enormi quantità di energia per combattere contro cose che, di fatto, già ci sono. Forse, se usassimo la stessa energia per vederle, la lotta reattiva non si innescherebbe neanche. Che liberazione! Che sollievo accettare la situazione così com’è, come un semplice processo in atto, senza alcuna teatralità, anche se non è particolarmente piacevole. Potremmo stare con ciò che predomina nell’esperienza del momento, che sia un dolore, una tensione fisica, un’emozione, un pensiero, riconoscendo: è così, ora c’è questo. Si tratta di entrare profondamente in contatto con la vita così com’è, non con le nostre fantasticherie su come dovrebbe essere. Si tratta di dare il benvenuto a tutto ciò che emerge, senza respingere nulla, non è nostro compito approvare o disapprovare. La parola benvenuto ci chiede di sospendere temporaneamente l’abituale impulso a giudicare, rimanendo semplicemente aperti a ciò che succede. Il nostro compito è stare attenti a ciò che si presenta alla porta e accoglierlo con spirito di ospitalità.
Questo tipo di accettazione non ha nulla a che vedere con la rassegnazione e non significa diventare fatalisti o apatici. E’ anzi un atteggiamento rilassato e curioso, è un interesse vibrante: vediamo com’è davvero! L’atteggiamento di apertura non determina la realtà: la scopre. E’ anche come dire: va bene, qualunque cosa sia, va bene, sono disposto a provarla, a lasciare che sia e magari me ne stupirò. Il grande maestro tibetano Rinpoche definisce l’apertura completa come “la disponibilità a guardare ogni evento che capita a lavorare e a rapportarsi con esso come se fosse parte di un processo complessivo. Un modo più ampio di pensare, una via più ampia per vedere le cose, opposta a quella meschina e schizzinosa.” Una mente ampia riconosce che spesso stanno accadendo molte più cose di quelle cui stiamo reagendo. L’apertura non si attacca a una particolare esperienza o idea. E’ spaziosa, non difesa, non parziale. E’ un’accettazione totale. E’ la natura della consapevolezza stessa, una natura che permette all’esperienza di manifestarsi.
Aprirsi a tutte le sfaccettature della nostra esperienza richiede coraggio e determinazione: ci sono cose che preferiremmo non vedere e che non vorremmo soffermarci a esplorare. Ma non spariscono, se ci limitiamo a distogliere lo sguardo.A partire dall’accettazione incondizionata, a partire dal consegnarsi mente e cuore alla realtà, è possibile introdurre il cambiamento. Un cambiamento che origina dalla comprensione e dalla saggezza e non da desideri egoistici o reazioni automatiche. L’azione che sorge da una condizione di accettazione, di equilibrio, di pace è senz’altro appropriata e sorge quasi spontanea dallo spazio di una mente aperta.
“Hai la pazienza di aspettare che il fango si depositi e l’acqua diventi chiara? Rieci a stare immobile fino a che la giusta azione sorga da sé?” Lao Tsu, Tao Te Ching
Una mente chiusa dalla reattività e dal rimuginare ossessivo genera al contrario azioni che ostacolano e a volte impediscono il cambiamento positivo. L’apertura è la base di un’abile risposta alla vita. Perché il modo in cui vediamo, le nostre concezioni influenzano la risposta al mondo esterno.
“Saper influenzare la qualità della giornata, questa è la più nobile delle arti” Thoreau, Walden
Poniamo che io sia molto grasso e desideri dimagrire. Detestare il mio corpo perché è sovrappeso e rimandare l’accettazione di me stesso a quando (e se) otterrò il peso ideale, non serve a nulla. Se invece comincio ad accettare come sono adesso, ad accogliermi e a prendermi cura di me – adesso è l’unico momento in cui possiamo accettarci, accoglierci e curarci, è l’unico momento che abbiamo a disposizione per fare qualunque cosa – anche dimagrire sarà più efficace (e meno determinante per il mio benessere). “Il curioso paradosso è che, quando accetto me stesso come sono, allora posso cambiare” Carl Rogers
Nella pratica meditativa coltiviamo l’accettazione. E’ un momento di elezione, non siamo settati sulla modalità del fare e possiamo dedicarci al privilegio di osservare cosa è presente istante dopo istante. Nuda osservazione, senza volere che le cose siano diverse, senza l’illusione che il modo esista per compiacerci e che lo scopo della Vita sia renderci felici.Il dono della pratica non è la felicità. E’ la libertà.Ma non possiamo essere liberi se rifiutiamo alcune parti della nostra esperienza (che, se non viste, tenderanno a riproporsi). Dare il benvenuto, non respingere nulla non può essere attuato solo come atto di volontà. E’ un atto di amore.
In meditazione dunque, facciamo caso alla nostra agitazione, alla noia, all’inquietudine, alla sonnolenza. Sono tutti segni che non stiamo accettando qualcosa. Trasformiamo questi stati non tanto piacevoli in preziosi feedback: qui c’è qualcosa che non voglio guardare. Qualcosa cui faccio resistenza, cui non voglio aprirmi. E volgiamoci verso quel qualcosa. E’ un atteggiamento contro corrente, non è istintivo e non è facile familiarizzare con ciò da cui vorremmo scappare. La pratica è dire: questa volta, non me la svigno. Vi riporto l’esperienza di Joseph Golstein con qualcosa che non accettava: la paura. Che riconosceva, credeva di esserne consapevole, ma non lo era. E senza consapevolezza, non c’è accettazione.
“Io ci ho lavorato per anni, è la mia emozione afflittiva principale, a volte paure piccole, a volte enormi. Ci sono stati momenti in cui avevo paura anche solo di passare dalla meditazione seduta a quella camminata, una paura completamente irrazionale, senza un contenuto reale: era proprio la spinta primaria della paura a manifestarsi. Ci ho lavorato un sacco e uno degli errori più grandi che ho fatto per anni era confondere il riconoscimento della paura con l’esserne consapevoli. Possiamo riconoscere qualcosa e al contempo non esserne consapevoli. Perché possiamo riconoscere qualcosa attraverso il filtro dell’avversione o del desiderio e questo facevo io con la paura: la guardavo, la riconoscevo ma attraverso l’avversione, per mandarla via. E non l’avevo capito. Credevo di esserne consapevole. A un certo punto, durante una meditazione camminata c’è stato un cambiamento. E’ arrivato questo pensiero: se questa paura starà qui per il resto della mia vita, è ok. E questo è stato il primo momento di vera, genuina accettazione. E’ ok è diventato il mio mantra. Ogni volta che la paura sorgeva ripetevo, è ok. Questo non significa che la paura non sorga più. Sorge, ma la mia relazione con lei è totalmente cambiata. In qualche modo, è ok. Possiamo consentirci di provare paura. E’ ok. Quando riconosciamo la paura, ne siamo consapevoli e ci rilassiamo, permettendoci di provarla, la paura diventa come qualsiasi altro stato mentale, sorge e cessa. E non ci limita più. Siamo talmente a nostro agio con l’avere paura che possiamo agire con coraggio, cioè nel bel mezzo della paura, senza che ci ostacoli. Sviluppare questo tipo di coraggio consente anche di sviluppare molte altre virtù. Coraggio inteso come abilità di agire nel mezzo della paura, a dispetto della paura, in faccia alla paura.”
Se ci apriamo alle cose, tutte possono insegnarci qualcosa. Il dolore può insegnarci la compassione. Come potremmo comprendere il dolore altrui, entrare in risonanza con il dolore altrui se non avessimo sperimentato quel dolore in noi? Essere consapevoli del dolore ci aiuta a percepirlo come una parte integrante della condizione umana: non è un errore, non è privo di valore e non è personale. Accade a tutti, sin dalla notte dei tempi. Se siamo vivi, ci sono ottime probabilità che si provi dolore. Vorremmo lasciarlo andare.
Ma per lasciare andare bisogna prima fare entrare.
Bibliografia
Frank Ostaseski “Cinque Inviti” ed. Mondadori
Joseph Goldstein “La pratica della Libertà” ed. Ubaldini
Achaan Sumedho “Così com’è” ed. Ubaldini
Charlotte Joko Beck “Zen Quotidiano. Amore e lavoro” ed. Ubaldini
Jon Kabat Zinn “Vivere Momento per momento” ed. Corbaccio