Mindfulness Based Cognitive Therapy, MBCT

Alla fine degli anni ’90 accadde qualcosa che segnò, senza dubbio, le ricerche e gli sviluppi delle scienze del comportamento e dei modelli cognitivisti e delle pratiche di consapevolezza: le terapie cognitive incontrarono la mindfulness.

Era passato quasi un ventennio dalla pubblicazione del primo articolo di Jon Kabat Zinn che aveva definito e testato il protocollo MBSR (An outpatient program in behavioral medicine for chronic pain patients based on the practice of mindfulness meditation: Theoretical considerations and preliminary results. Jon Kabat Zin, 1982. The clinical use of mindfulness meditation for the self-regulation of chronic pain. Kabat-Zinn J., Lipworth L., Burney R. 1985). La mindfulness era un trattamento ancora poco conosciuto: se ne discuteva soprattutto tra i professionisti e ricercatori universitari in terra USA, si incominciava ad intravederne tutte le potenzialità ma era ancora lontano l’enorme sviluppo che poi avvenne.

Tre importanti esponenti del mondo cognitivista, Zindel Segal (Psicologo, Toronto University), Mark Williams (Psicologo, Oxford University) and John Teasdale (Psichiatra, Cambridge University) stavano lavorando per integrare e rendere maggiormente efficace un modello di intervento basato sui paradigmi della Cognitive Beahaviour Therapy (CBT)  per la cura delle ricadute depressive.

Vennero a conoscenza del programma MBSR e se ne interessarono. Come raccontato nel testo: “Mindfulness: al di là del pensiero attraverso il pensiero” (1), andarono a Boston da Kabat Zinn e raccolsero informazioni tecniche e concettuali sulla metodologia proposta nel protocollo. I tre tornarono a lavorare e definirono un protocollo di intervento per le recidive depressive, basato principalmente sulle metodologie CBT dell’epoca ed integrandolo con alcune “tecniche” apprese nel loro viaggio negli USA. Accadde che qualcosa non funzionava come ci si aspettava: Il protocollo definito non aveva gli effetti sperati sui pazienti. I ricercatori tornarono nella clinica di Kabat Zinn e questa volta decisero, seguendo anche i suggerimento di Jon, di partecipare al protocollo: non più osservatori esterni ma praticanti. Il cambiamento fu notevole sia nella loro conoscenza del protocollo MBSR ma soprattutto nella filosofia sottostante il protocollo: capirono che non era una semplice e innovativa tecnica ma c’era qualcosa di molto più radicato nel programma di Kabata Zinn. Entrarono a piè pari in quello che si può definire come il pre requisito per ogni insegnante di mindfulness: non è possibile trasmettere ciò che non si incarna. A ben vedere nulla di magico o di trascendetale, anche nelle più comuni psicoterapie un bravo e ben formato terapeuta avrà la necessità di essersi anch’esso sottoposto ad un percorso di terapia o di supervisione clinica per poter ricoprire e quindi incarnare, un ruolo estremamente delicato, che richiede un equilibrio e stabilità personale adatta ad accogliere il dolore e la sofferenza del paziente. Qui, forse, il tema è ancora più delicato e profondo. Più volte gli autori evidenziano questo concetto: “non si tratta di insegnare una tecnica attraverso un’esposizione concettuale. Se quando insegna, l’istruttore non è in grado di attingere da un’esperienza solida di pratica di consapevolezza, i pazienti non potranno apprendere che in misura limitata” (1, p. xvi). E ancora: “La sfida per l’istruttore di programmi basati sulla mindfulness è dunque quella di farsi partecipe di quello stato di coscienza chiamato consapevolezza, di farne esperienza dall’interno, in prima persona” (1, p. xvi). Gli autori dedicano, nella seconda edizione del libro, uno spazio ancora più ampio a questo tema, descrivendo le potenzialità del crescente interesse per la mindfulness e mettendo in guardia tutti noi, rispetto agli enormi rischi che: “la popolarità possa portare ad una enorme curiosità non supportata da una comprensione adeguata. Il rischio è che i protocolli basati sulla mindfulness possano divenire delle caricature della meditazione di consapevolezza, incapaci di preservarne l’essenza trasformativa e finiscano per essere assimilati a tecniche di rilassamento, a esercizi comportamentali, a tecniche terapeutiche” (1, p. xvi).

Dopo questa doverosa parentesi torniamo alla descrizione del protocollo Mindfulness Based Cognitive Therapy, MBCT. Nel 2002 Segal, Williams e Teasdale, pubblicano la prima edizione del testo che illustra la nei suoi contenuti e sviluppi concreti (1). Il protocollo MBCT integra aspetti della terapia cognitivo-comportamentale per la depressione (Beck, Rush, Shaw ed Emery, 1979) nel programma di riduzione dello stress basato sulla consapevolezza (MBSR) sviluppato da Kabat-Zinn (1982).

Per prima cosa va detto che il programma è indicato per la “relapse prevention”, quindi per affrontare ed essere preventivo alle ricadute in episodi depressivi. Per cui un protocollo specifico per un particolare problema e non un programma generalizzato che possa essere adatto ad altri tipi di diagnosi (molti altri protocolli si svilupperanno in seguito, protocolli sicuramente interessanti ma che richiedono ancora oggi significative prove di evidenza cosi come definito da parametri scientifici). Solo per questo modello di intervento si dispone di dati clinici di efficacia che rendono possibile la sua proposta e il suo utilizzo in questi casi specifici. Si pensi che dal 2004 il NICE ( The National Institute for Health and Care Excellence)

raccomanda MBCT come trattamento di prima scelta per la prevenzione delle ricadute depressive. In media, è stato dimostrato che MBCT riduce il rischio di ricaduta per le persone che soffrono di depressione ricorrente di quasi il 50%, indipendentemente dal sesso, dall'età, dall'istruzione o dallo stato di relazione. E’ ancora aperto un dibattito rispetto ad alcuni dati emersi in ricerche in qui si dichiara che l’MBCT ha aiutato a prevenire la ricorrenza della depressione con la stessa efficacia dei farmaci antidepressivi di mantenimento. Ma non è in discussione il fatto che le ricerche presenti in letteratura abbiano dimostrato che il protocollo può ridurre la gravità dei sintomi depressivi e aiutare a ridurre il desiderio di sostanze per alleviare il peso della sofferenza.

In modo generale e semplicistico possiamo dire che il protocollo MBCT insegna ai pazienti che sono attualmente in remissione dalla depressione maggiore ricorrente a diventare più consapevoli e a relazionarsi in modo diverso con i loro pensieri, sentimenti e sensazioni corporee. Ad esempio, i pazienti sono incoraggiati a relazionarsi con pensieri e sentimenti come eventi di passaggio nella mente, piuttosto che identificarsi con loro o trattarli come rappresentazioni accurate della realtà. MBCT insegna abilità che consentono agli individui di disimpegnarsi dalle routine cognitive disfunzionali abituali ("automatiche"), in particolare, i modelli di pensiero ruminativo relativi alla depressione, come un modo per ridurre il rischio futuro di ricaduta e recidiva della depressione. MBCT insegna all'individuo a interrompere quei processi che generalmente procedono automaticamente e scatenano la depressione. Invece di permettere ai pensieri, alle emozioni e alle sensazioni fisiche di amplificarsi a vicenda e di inviare la persona a spirale, si impara a riconoscere il processo nelle prime fasi. Una volta riconosciuto, possono interromperlo staccandosi dalla modalità di fare e passando alla modalità di essere. Nella modalità essere, non è necessario cercare di fermare i pensieri, le emozioni e i sentimenti e si può permettere loro di giocare in modo naturale. Ciò, come evidenziato in precedenza, è un percorso che richiede di entrare nella pratica e renderla parte integrante nella vita del paziente: no mindfulness, no effetto trasformativo.

Il protocollo MBCT ricalca nel suo sviluppo e metodologia il protocollo MBSR con 8 sessioni, la giornata intensiva e le pratiche formali e informali tra una sessione e l’altra.

1. Mindfulness. Al di là del pensiero, attraverso il pensiero. Zindel V.Segal, J.Mark G. Williamsa John D. Teasdale. Ed. Bollati Boringhieri (2^ edizione settembre 2014)